Por Gisela Avolio.
Traducción Gisela Avolio en colaboración con Graciela Mestroni
Nota de edición: En esta oportunidad el entrevistado respondió a las preguntas en italiano por lo que decidimos respetar la lengua en la que lo hizo y publicar también las respuestas en nuestra lengua.
Come e quando hai scoperto la Psicoanalisi?
In che modo pensi che la Psicoanalisi possa contribuire alla nostra contemporaneità?
Vorrei rispondere alle tue questioni invertendo l’ordine logico della sequenza casuale che li connette, dalla psicanalisi intensiva a quella estensiva, perché nella mia storia non è possibile stabilire cosa ha determinato il passaggio dall’uno all’altro dei due momenti, non potendo discernere quale dei due preceda logicamente l’altro, in un processo dove la causalità psichica non riconosce la distinzione tra soggetto e oggetto della conoscenza.
«Che il soggetto dica» è l’opinione corrente, come quella che le fa eco «che al soggeto si parli»; l’una e l’altra così radicate in ognuno, che sopra ci si è potuto edificare la teoria della comunicazione: alle due estremità di un percorso, dove è supposto viaggiare il messaggio, i soggetti assumerebbero alternativamente il ruolo di emittente e destinatorio. Questo modello di intersoggettività rivela il suo impianto illusorio quando si accetti, con Lacan, che l’emittente riceve dal destinatario il proprio messaggio sotto forma rovesciata e cioè: che il discorso dell’uomo è sempre il discorso dell’Altro.
In modo semplificato, e dunque approssimativo, potremmo dire che il soggetto non è padrone del proprio discorso, se subito rettifichiamo, sostituendo «parlante» a «soggetto»; perché quanto al soggetto, resta ancora da collocarlo da qualche parte. Quando colui che parla sa quello che dice, egli è sicuro…, e noi pure, ma che non sia soggetto – proprio nel senso di assoggettato – al fiume di parole, che lo attraversa senza lasciare la minima traccia di bagnato (l’acqua lo bagna e il vento lo asciuga). È quando egli si mette nella posizione di non sapere e solo a partire da quel punto di sospensione del proprio «penso», che si apre quel varco nel dire, per il quale il soggetto può fare la sua comparsa e subita scomparsa, in un battito, secondo le pulsazioni dell’inconscio.
Allora il soggetto ci si rivela come effetto del dire – vanificando la pretesa che ci sia un soggetto artefice del dire – ; così come accade nei lapsus e nel motto di spirito, quando per colui che parla s’apre il sipario de l’«Altra scena», oppure, quando nell’analisi c’è presenza dell’analista, con l’interpretazione, se questa ambiguamente apre a quell’invenzione di sapere, che avviene solo per il tramite della lettera sul filo equivoco della scrittura, che è la molla della psicanalisi.
È opportuno allora che qui io dica, per quali vie sono giunto al passo che mi ha portato a intraprendere l’analisi personale, tracciando per brevi linee la mia storia antecedente.
All’epoca del momento inaugurale di una domanda che, finalmente, dava l’incipit alla mia analisi, la lettura sistematica dell’Opera di Freud, eseguita con zelo e fervore nei due decenni precedenti questo nuovo atto, faceva già parte della mia formazione umanistica e mi aveva portato, insieme con la curiosità per tutto ciò che fosse pertinente al linguaggio, ad accostare gli «Scritti» e i Seminari di Jacques Lacan, ribaltando sullo sfondo tutte le mie escursioni nei labirinti della letteratura psicanalitica, d’ispirazione freudiana e post freudiana.
Ero anche al culmine di una lunga stagione della mia vita, in cui l’interesse per il teatro, che praticavo fin dalla giovane età, mi aveva già portato a collaborare con l’istituzione teatrale della città in cui m’ero portato a risiedere, a lato del mio lavoro di docente di materie letterarie nella scuola pubblica.
Prima ancora di intraprendere un’analisi personale, nei lunghi anni di esperienza sociale che mi avrebbe portato a questo passo, non c’era campo in cui mi addentrassi dove non era tangibile il disagio della civiltà denunciato da Freud, nel quale questi aveva scorto una delle determinazioni, quella più scoperta, del reale.
Il mio lavoro didattico tuttavia traeva linfa dall’apporto che veniva dalla teoria psicanalitica e grazie a questo, pure con l’ausilio importante delle proficue collaborazioni nel teatro di professione, giungeva a trovare un originale sbocco nell’animazione teatrale nelle scuole e in quella più vasta, condotta nei quartieri della città: il rapporto con i giovani studenti, nelle scuole e nei quartieri, essendo un luogo privilegiato per incontrare il disagio nelle sue forme più pure e averci a che fare.
Si trattava, in questa pratica, allora discretamente diffusa, che originariamente era forse nata con l’intento di recuperare la spontaneità nel quadro dell’istruzione obbligatoria allora detta di massa, di trasferire in un’azione drammatica una materia di studio qualsiasi o un evento occasionale, lasciando ai partecipanti l’iniziativa nella scelta di parole e di gesti, anche fuori senso, rispetto al soggetto che loro stessi avevano proposto. Sullo sfondo del tema di partenza, l’azione allestita assumeva così qualche tratto, se non le sembianze, di chi in quel momento animava la materia o l’evento, al punto che poteva, allora, egli stesso coglierci qualcosa d’inatteso e vedersi, dalla posizione esterna di attore, alle prese con il suo personale disagio. L’esperimento di animazione teatrale, non prevedeva di andare oltre questa presa d’atto, ma aveva qualche risultato nella durata, quando consentiva di ritualizzare la sorpresa in qualche parola, fuori senso, ricorrente.
Il passo successivo, per me, sarebbe stato quello di portare quest’esperienza nei luoghi istituzionali in cui il sintomo, nelle sue forme più manifeste, trovava a quel tempo la sua accoglienza e il suo ascolto, offrendo per un determinato periodo una prestazione di opera volontaria in quelle istituzioni, memore del monito freudiano che l’io di ciascuno di noi non ha nulla di dissimile da quello dei cosiddetti malati di mente. Intanto avevo trasferito dalla città di Torino a Roma la mia abituale attività di animazione teatrale nei quartieri, senza mai lasciare l’attività didattica nelle scuole statali.
A questo punto il lavoro con i giovani del quartiere, prima nelle cantine e poi in uno luogo stabile, un capannone abbandonato opportunamente predisposto e attrezzato dal locale Comitato di quartiere, si era configurato come un laboratorio, spontaneamente costituitosi, secondo le dinamiche dello psicodramma, senza per questo prefiggersi una intenzionalità terapeutica. Era comunque un dispositivo che permetteva, agli attori di questa esperienza, la scoperta di un gusto nuovo nel sentire il proprio corpo, fisicamente immerso nel linguaggio del movimento e della parola, ritrovandosi ciascuno, senza saperlo, a trasfigurare il proprio “ciò che non va” nell’invenzione di una realtà inedita, avulso dai propri condizionamenti espressivi.
Eccomi così giunto agli albori degli anni ottanta con il proposito di sperimentare, per me stesso, l’impegno di un’analisi personale.
Devo tuttavia confidare che il mio ingresso nell’analisi aveva anche radici più schiette e più lontane, per non dire più ingenue, che risalivano all’adolescenza, quando, tra le numerose e accanite frequentazioni letterarie, proprie di quell’età, ero incorso nella lettura di un qualche scritto vagamente scientifico, che, presumendo indagare sull’animo dell’uomo, mi aveva convinto che quel ragionare sulla psiche fosse l’arte nuova di pensare, e che questa avrebbe dovuto essere la mia futura occupazione.
S’intende allora come, partendo dal semplice voto adolescenziale, la mia analisi era infine motivata dalla prospettiva del divenire analista, non sapendo che quella era la maschera di un sintomo, o, per meglio dire, che dietro il sintomo del divenire analista si occultava quello del mio personale disagio.
Tutto il fervore dei primi anni d’analisi era speso nell’impegno a ridurre questo sintomo, che, paradossalmente, svelò la sua faccia d’inganno, solo quando, dopo alcuni anni, cominciavo arditamente a occupare il posto dell’analista, pur proseguendo nella mia analisi personale, che ritenevo, a ragione, il vero luogo della clinica. Apprendevo così che non c’è altra clinica che quella personale e che bisogna passare fino in fondo per questa se si vuole avere la chance che, venendo infine a quel passo di mettersi a quel posto, ci sia presenza dell’analista.
Ero così entrato nella pratica della psicanalisi da profano, e consideravo questa condizione un privilegio e una garanzia perché scevro, in partenza, dalle presunzioni di cui dovessi liberarmi, nel caso che mi potessero venire da una qualche sedicente competenza professionale. Non si parla, qui, dell’esperienza sul campo, con i malati, che si acquisisce nei luoghi istituzionali, che anzi può essere un tirocinio utile se non indispensabile alla formazione, ma della supponenza di un sapere medico o altro.
Pur conservando l’entusiasmo del neofito dell’analisi, nella sua pratica quotidiana, dovevo sperimentare che il lavoro analitico richiede di superare ogni volta la soglia di ciò che è gradevole o confortevole per entrare nel rischio, passando per il campo impervio dell’Altro, e che, se talvolta, grazie a chi sapientemente lo conduce, è proprio l’invenzione a segnare una qualche svolta nel sapere, sull’equivoco, anche poetico, dell’interpretazione, che sorprende inerme l’analizzante, sospeso tra lettera e fonazione, è solo per chiedergli un tributo da pagare, puntualmente, sulla propria pelle, è il caso di dirlo.
Chi ha un’esperienza della pratica psicanalitica, infatti, sa che, per osservare l’assunto freudiano iniziale di dire qualsiasi cosa, non importa se assurda e impertinente, sgradevole oppure oscena, non si può non fare astrazione sia dal profilo estetico sia da quello etico, così come l’uno e l’altro è inteso nel senso comune, per portare avanti un lavoro di parola in modo libero: dalle riserve sulle pagine di vergogna della propria storia o dalle preclusioni di offesa all’immagine intoccabile dell’altro, dove segretamente si mette al riparo il proprio ideale.
¿Cómo y cuándo descubrió el Psicoanálisis?
¿Qué considera que el Psicoanálisis puede aportar a nuestra contemporaneidad?
Quisiera responder a tus disquisiciones invirtiendo el orden lógico de la secuencia causal que las conecta, del psicoanálisis intensivo al extensivo, porque en mi historia no es posible establecer qué es lo que ha determinado el pasaje de uno a otro de esos dos momentos, y no se puede discernir cuál de los dos precede lógicamente al otro, en un proceso donde la causalidad psíquica no reconoce la distinción entre sujeto y objeto del conocimiento.
“Que el sujeto diga” es opinión corriente, tal como la que le hace de eco – “que al sujeto se le hable”; una y otra tan arraigadas en cada quien, que se ha podido edificar sobre ellas la teoría de la comunicación: en ambos extremos de un recorrido, por el cual se supone que debe viajar el mensaje, los sujetos asumirían alternativamente el rol de remitente y destinatario. Este modelo de intersubjetividad revela su instalación ilusoria cuando se acepta, con Lacan, que el emitente recibe del destinatario su propio mensaje bajo forma invertida y por ende: que el discurso del hombre es siempre el discurso del Otro.
De modo simplificado, ergo aproximativo, podríamos decir que el sujeto no es dueño de su propio discurso, si de inmediato rectificamos, sustituyendo “sujeto” por “hablante”; porque en cuanto al sujeto, aún resta colocarlo en algún lugar. Cuando quien habla sabe lo que dice, está seguro…, y nosotros también, pero no quien no sea sujeto (en el sentido de que esté sujeto) al río de las palabras, que lo atraviesan sin dejar rastro alguno de estar mojado (el agua lo moja y el viento lo seca). Es cuando él se pone en la posición de no saber y solo a partir de ese punto de suspensión del propio «pienso», es que se abre ese pasaje en el decir, por el cual el sujeto puede hacer su aparición e inmediata desaparición, en un pulso, según las pulsaciones del inconciente.
Entonces, el sujeto se nos revela como efecto del decir -frustrando la pretensión de que exista un sujeto artífice del decir-; así como sucede en los lapsus y en chiste, cuando para la persona que habla se abre el telón de la «Otra escena», o bien, cuando en el análisis hay presencia del analista, con la interpretación, si ésta ambiguamente hace lugar a esa inventiva del saber, que se da solo a través de la letra sobre el filo equívoco de la escritura, que es el resorte del psicoanálisis.
Es oportuno entonces que en este punto yo diga, por qué vías llegué al paso que me llevó a emprender el análisis personal, describiendo en breves líneas mi historia anterior.
En la época del momento inaugural de una pregunta que, finalmente, daba inicio a mi análisis -la lectura sistemática de la Obra de Freud, realizada con celo y fervor en las dos décadas precedentes a este nuevo acto-, era ya parte de mi formación humanista y me había llevado, junto con la curiosidad por todo aquello que atañe al lenguaje, a detenerme en los «Escritos» y los Seminarios de Jacques Lacan, lo cual revirtió en el fondo todas mis excursiones en los laberintos de la literatura psicoanalítica, de inspiración freudiana y post freudiana.
Me encontraba asimismo en el punto cúlmine de un largo período de mi vida en el cual el interés por el teatro, que practicaba desde joven edad, me había ya llevado a colaborar con la institución teatral de la ciudad en la cual terminé residiendo por mi trabajo de docente de literatura en la escuela pública.
Aun antes de emprender un análisis personal, en los largos años de experiencia social que me llevarían a este paso, no había campo en el cual me adentrara donde no fuera tangible el malestar de la civilización denunciado por Freud, en el cual éste había percibido una de las determinaciones, la más expuesta, de lo real.
Así las cosas, mi trabajo pedagógico abrevaba en los aportes de la teoría psicoanalítica y gracias a eso, como así también gracias al auxilio importante de mi fructífera colaboración en el teatro profesional, éste lograba encontrar una original salida en la animación teatralescolar y en la que se llevaba a cabo más ampliamente en los barrios de la ciudad: el vínculo con los jóvenes estudiantes, en las escuelas y en los barrios – un lugar privilegiado para encontrar el malestar en sus formas más puras y profundizar en ello.
Con esta práctica -en aquel entonces discretamente difundida, surgida tal vez para intentar recuperar la espontaneidad en la enseñanza obligatoria llamada entonces de masa- se trataba de llevar a la acción dramática una materia de estudio o un evento ocasional, dejando a los participantes la iniciativa de elegir palabras y gestos, incluso más allá del sentido, respecto del tema que ellos mismos habían propuesto. En el trasfondo del tema de partida, la acción montada asumía así algún rasgo, si no las propias semblanzas, de quien en ese momento animaba la materia o el evento, a punto tal que podía él mismo tomarnos por sorpresa y encontrarse, desde la posición externa de actor, lidiando con su propio malestar. El experimento de animación teatral no preveía ir más allá de esta constatación pero producía algún resultado en el durante, cuando hacía posible ritualizar la sorpresa con alguna palabra recurrente en otro sentido.
El paso sucesivo, para mí, habría sido el de trasladar esta experiencia a instituciones en las cuales el síntoma, en sus formas más manifiestas, encontraba recepción y escucha, ofreciendo por un período determinado un servicio de obra voluntaria en dichas instituciones, consciente de la advertencia freudiana de que el ego de cada uno de nosotros no es para nada diferente del de los que son llamados enfermos de la mente. Mientras tanto, había trasldado de Turín a Roma mi actividad usual de animación teatral en los barrios, sin haber dejado en ningún momento la actividad en las escuelas estatales.
En este punto, el trabajo con los jóvenes del barrio, primero en sótanos y luego en un lugar estable; un galpón abandonado oportunamente dispuesto y equipado del local del Comité barrial se había configurado como un taller, que se constituyó de manera espontánea según las dinámicas del psicodrama, sin por ello prefijarse una intencionalidad terapéutica. Era sin embargo un dispositivo que permitía a los actores de esta experiencia descubrir un gusto nuevo en el sentir el propio cuerpo, físicamente inmerso en el lenguaje del movimiento y de la palabra, y cada quien se reencontraba, sin saberlo, transfigurando el propio “eso que no va” al inventar una realidad inédita, independientemente de sus condicionamientos expresivos.
Así fue que llegué a los albores de los ochenta con el propósito de experimentar, por mí mismo, el compromiso de un análisis personal.
Debo, sin embargo, confiarle que mi ingreso al análisis tenía también raíces más francas y más lejanas, para no decir más ingenuas, que se remontaban a la adolescencia, cuando entre las numerosas y ávidas visitas literarias, propias de esa edad, había incursionado en la literatura de algún escrito vagamente científico, que, presumiendo de indagar en el alma del hombre, me había convencido de que razonar así sobre la psique era un arte nuevo de pensar y que esa debía ser mi futura ocupación.
Se entiende entonces cómo, partiendo del simple deseo de adolescente, mi análisis estaba finalmente motivado por la perspectiva de devenir en analista, sin saber que esa era la máscara de un síntoma, o para decirlo mejor, que detrás del síntoma de volverme analista se ocultaba el de mi malestar personal.
Todo el fervor de los primeros años de análisis estaba puesto en el compromiso de reducir este síntoma, que, paradójicamente, develó su faz de engaño solo cuando después de algunos años, yo comenzaba a ocupar con osadía el puesto del analista, aun prosiguiendo con mi análisis personal, que consideraba, con razón, el verdadero lugar de la clínica. Aprendía así que no hay otra clínica que la personal y que se debe pasar a fondo por ella si se desea tener la chance de que, llegando al fin a ese paso que nos mete en ese lugar, esté la presencia del analista.
Había entrado en la práctica del psicoanálisis como profano y lo consideraba una condición de privilegio y una garantía porque estaba exento inicialmente de las presunciones de las que debía liberarme, en el caso de que me pudieran llegar desde una supuesta competencia profesional. No se habla aquí de la experiencia en el campo, con los enfermos, que se adquiere en lo institucional, que incluso puede llegar a ser una práctica útil si no indispensable para la formación, sino de la suposición de un saber médico u otro.
Aun conservando el entusiasmo que tiene el neófito con el análisis en su práctica diaria, yo debía experimentar que el trabajo analítico requiere superar cada vez el umbral de lo agradable o cómodo para entrar en el riesgo, pasando por el difícil espacio del Otro, y experimentar que, a veces (gracias a quien sabiamente realiza dicho trabajo es precisamente la inventiva que señala sobre lo equívoco, o incluso poético, un giro en el saber de la interpretación, que sorprende inerme al analizando suspendido entre la letra y la fonación) es solo para pedirle que pague un precio específicamente en carne propia, y que hay que decirlo.
Quien tiene una experiencia de la práctica psicoanalítica, en realidad, sabe que para observar el asunto freudiano inicial de decir cualquier cosa, no importa si es absurdae impertinente, desagradable u obscena incluso, no se puede no hacer abstración sea desde el perfil estético o desde el ético, tal como uno y otro son entendidos comúnmente, para realizar un trabajo de palabra de modo libre: desde la reserva sobre las páginas vergonzantes de la propia historia o desde las exclusiones ofensivas a la imagen intocable del otro, donde secretamente se pone al reparo el propio ideal.

BURZOTTA LUIGI, nato a Mazara del Vallo il 2 marzo 1942, esercita come psicanalista a Roma, nel suo studio di Lungotevere degli Artigiani 30, dove tiene dal 1986 un seminario quindicinale di teoria e clinica psicanalitica. Iscritto all’Albo dell’Ordine degli Psicologi e Psicoterapeuti del Lazio dal 03/12/1993 N. 3514. Direttore e Legale Rappresentante dell’Istituto Laboratorio Freudiano per la Formazione degli Psicoterapeuti (Ric. D. Min. del 29/01/2001). Presidente della Fondation Européenne pour la Psychanalyse. Tra le sue pubblicazioni: Lo sguardo della maschera, psicanalisi e arte poetica. Roma, Armando editore, 2013.
BURZOTTA LUIGI, nacido en Mazara del Vallo el 2 de marzo de 1942, ejerce como psicoanalista en Roma, en su estudio en Lungotevere degli Artigiani 30, donde ha dictado un seminario quincenal sobre teoría y clínica psicoanalítica desde 1986.
Inscripto en el Registro de la Asociación de Psicólogos y Psicoterapeutas de Lazio desde el 12/03/1993 N. 3514. Director y representante legal del Instituto Freudian Laboratory para la formación de psicoterapeutas (Ric. D. Min. Fechado el 29/01/2001). Presidente de la Fundación Europea por el psicoanalisis. Entre sus publicaciones: Lo sguardo della maschera, psicoanálisis y arte poético. Roma, editorial Armando, 2013.
Gisela Avolio, actualmente trabaja como analista, es miembro fundadora de la Escuela Freudiana de Mar del Plata, y miembro de Fondation Européenne pour la Psychanalyse. Fue Residente de Psicología en el Htal. Subzonal especializado Neuropsiquiátrico Dr. Taraborelli (Necochea, Bs. As.). Dicta clases en las actividades de la Efmdp, y allí coordina el dispositivo Práctica psicoanalítica con Niños y Adolescentes, desde 2010; actualmente es docente y supervisora de la Residencia de Psicología Clínica de los Hospitales Provinciales de Necochea y Mar del Plata. Y dicta clase anualmente en Centre IPSI de Barcelona. Desempeña la práctica del psicoanálisis en el ámbito privado.